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La storia di Qasem, dall’Afghanistan a Bologna: “Finalmente mi sento al sicuro”

Il viaggio in Iran, la fuga in Turchia, il sogno della Norvegia. E il presente in Italia. Qasem Heidari, beneficiario SAI, grazie al progetto Nausicaa oggi lavora al ristorante Pasto Nomade

“Cosa mi piace di più della mia vita di adesso a Bologna? Mi piace camminare, nessuno ti dà fastidio, mi sento veramente libero. Mi piace camminare soprattutto di notte, perché la città è ancora sveglia. Nel paese dove sono nato e cresciuto, dalle 19 non c’è più elettricità e in giro ci sono solo uomini della sicurezza e talebani. Questi ultimi fanno ciò che vogliono, uccidono chi vogliono senza che mai, nessuno, chieda loro il perché”. Qasem Heidari ha 28 anni. Viene da Ghazni, cittadina dell’Afghanistan orientale, sulla strada tra Kabul e Kandahar. Arrivato in Italia per la prima volta nel 2014, dopo una serie di tentativi di spostarsi verso il Nord Europa, nel 2017 è tornato nel nostro Paese, complice il Trattato di Dublino. Oggi lavora come aiuto cuoco e lavapiatti a Pasto Nomade, ristorante vegetariano impegnato in scelte e ricette sostenibili e antispreco che rielaborano, in chiave contemporanea, le cucine del mondo. “Lavoro in laboratorio dalle 11 alle 17. Mi occupo delle stoviglie e taglio frutta, verdura, tutto ciò di cui ha bisogno lo chef. Sto imparando molto”.

Qasem, come detto, è afgano. Rimasto solo dopo l’uccisione dei genitori e di un fratello, dopo la scelta, del fratello maggiore, di partire per la Norvegia, ha abbandonato l’Afghanistan per raggiungere, con una zia, l’Iran: “Per due anni sono andato a scuola, poi ho cominciato a lavorare. Stavamo a Teheran, ma non era una vita facile: non potevamo permetterci nulla, i documenti andavano rinnovati ogni 6 mesi, in quanto stranieri non potevano comprarci né una macchina né una casa. Nel 2011 la polizia mi ha fermato, non avevo documenti: mi hanno riportato in Afghanistan, ma non nella mia città, a Herat, dall’altra parte del Paese, a circa 15 ore di macchina”. Dopo un periodo passato in strada, Qasem ha trovato lavoro come muratore: “Il proprietario dell’azienda era un uomo gentile, mi ha permesso di dormire nell’edificio al quale stavamo lavorando. Ho vissuto così otto mesi, ma il lavoro c’è stato solo per tre. Poi ho cominciato a lavorare in una panetteria, ma è stata una pessima esperienza: io sono un hazara, il mio capo un tagiki, due etnie storicamente contrapposte”. Pashtun, tagiki, hazara, uzbeki. E poi sciiti, sunniti. Convinzioni diverse, lingue diverse, in un Paese spaccato profondamente in più direzioni: “Penso che in tutto il mondo vi sia il razzismo, ma mai come in Afghanistan”.

Dopo aver messo da parte un po’ di soldi, Qasem ha scelto di tornare in Iran ma, ancora una volta senza documenti né lavoro, nel cuore di un Paese dove tutto era diventato più costoso, dopo poco meno di un anno ha maturato la decisione di partire per l’Europa. A piedi fino a Urmia, sul confine con la Turchia, poi per un tratto in macchina, poi ancora a piedi per attraversare le montagne e, dopo un viaggio in autobus, l’arrivo a Istanbul, in una casa condivisa con altre persone in transito, sotto il tetto degli stessi trafficanti che avevano organizzato il viaggio. “Ho vissuto lì un paio di mesi, poi mi hanno messo una una barca con altre cento persone. Dopo 5 giorni di viaggio siamo sbarcati sulle coste siciliane. Se ho avuto paura? Sì. La barca era troppo piccola per contenerci tutti”.

Qasem ricorda la gentilezza dei soccorritori e anche delle forze dell’ordine: “Non capivo una parola, non conosco nemmeno l’inglese. Chi poteva permetterselo, nottetempo è salito un taxi verso Roma. A me hanno preso le impronte come previsto dal Trattato di Dublino ma, il giorno dopo, sono partito per Roma anche io. E poi Austria, Germania, Norvegia, da mio fratello: volevo fermarmi da lui, ho richiesto il permesso di soggiorno ma, come previsto dal Trattato di Dublino, mi è stato rifiutato e sono stato costretto a tornare in Italia. Io, dell’Europa, non sapevo nulla: come funzionava il diritto d’asilo? Avrei trovato lavoro o sarei stato costretto a vivere per strada come in Iran?”. Inserito nel progetto SAI della Città Metropolitana di Bologna, la strada di Qasem incrocia quella della cooperativa sociale Open Group tramite il progetto Nausicaa, nato per favorire l’inclusione socio-lavorativa e supportare l’accesso dei cittadini stranieri nel mercato immobiliare privato della Città metropolitana di Bologna: “Insieme abbiamo costruito un progetto per me: prima sono andato a scuola per imparare l’italiano, poi mi hanno aiutato a cercare un lavoro. Vivo in una comunità a Sasso Marconi e mi trovo molto bene: siamo in 8 persone più 6 tra operatrici e operatori. Abbiamo a disposizione uno psicologo e l’assistenza medica”.

Oggi la sveglia di Qasem suona presto, perché alle 9.15 parte il treno per Bologna. Il lavoro a Pasto Nomade comincia alle 11, “dopo una passeggiata in città alle 10.45 sono là. Prepariamo un ottimo cous cous con la barbabietola, ma anche le lasagne sono buonissime”. “Per noi, nella vita come in cucina, la diversità è una ricchezza, non un limite – sottolinea Pina Siotto, fondatrice, insieme con Cristina Fiorese e Alfredo Carlo del laboratorio-ristorante di via Lanzarini –. Ho collaborato con un a un corso di cucina nelle comunità di Open Group e lì ho conosciuto Qasem: mi ha colpito la sua personalità silenziosa ma volenterosa, ha dimostrato subito tanto impegno e, quando mi è stato proposto di inserirlo nella brigata ho capito di voler collaborare al fiorire di questa persona”. Finito il turno, il treno lo riporta a Sasso, in tempo per preparare la cena: “Cuciniamo insieme, e intanto ci raccontiamo la giornata con John, un ragazzo afgano che studia; Jamal, originario della Tunisia; Vladimir, russo. È bellissimo vivere con persone che vengono da tutto il mondo, ma mi piace anche quando c’è qualche afgano, per continuare a parlare la mia lingua”.

“Se mi manca il mio Paese? Mi manca la mia città. Non ci sono più tornato, là non ho più nessuno. Qui, invece, ho tanti progetti. Mi piacerebbe prendere la cittadinanza italiana, vorrei un lavoro a tempo indeterminato, una casa mia. Ho imparato un po’ la lingua e mi sto abituando a questa nuova quotidianità. Ho anche trovato nuovi amici: ho un disturbo dello spettro autistico e questo percorso, per me, non è stato facile ma ora, finalmente, mi sento al sicuro”.